La definitiva conversione in legge, con non poche modificazioni, del decreto-legge n.19/2024 – recante “ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) – induce a qualche riflessione di sistema almeno sui seguenti tre aspetti: l’approccio metodologico, l’impatto sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, e la permanenza degli effetti ordinamentali.
Iniziando dall’approccio di metodo, esso rispecchia modalità purtroppo ormai consuete nel procedimento di creazione delle disposizioni legislative: piuttosto che affidarsi alla legge, da lungo tempo, infatti, il Governo ricorre allo strumento del decreto-legge “omnibus”, il cui corposo pacchetto di disposizioni per un verso investe un’amplia molteplicità dei settori di intervento, e, per altro verso, è funzionalmente connotato dalla presenza di una finalità trasversale e presuntivamente comune. Una prassi, va aggiunto, che nella più gran parte dei casi non ha trovato particolare ostacolo nel sindacato della Corte costituzionale.
In questo specifico caso, la finalità “prima” è stata quella di correggere e integrare l’intricato impianto normativo relativo all’attuazione del PNRR, soprattutto a seguito della revisione concordata con le autorità della UE alla fine dello scorso anno. Una finalità che, a ben vedere, ha ormai accomunato una lunga serie di interventi mediante decreti-legge quasi con cadenza annuale (si vedano i decreti-legge n.152/2021, n.36/2022 e n.13/2023). Sicché è evidente che la stessa multi-dimensionalità oggettuale del PNRR, tanto più con le modifiche da ultimo apportate, ha trascinato con sé l’estesa diversificazione degli ambiti coinvolti anche nel presente decreto-legge.
Con un risultato innovativo quasi straniante, dato che il risultato complessivo è un dettato legislativo assai simile – non solo per estensione e per varietà, ma anche per oscurità del contenuto prescrittivo – alle leggi finanziarie di un tempo, adesso resuscitate dall’ultima versione (assai “sostanzialistica”) della legge di bilancio. In buona sostanza, è stata anche un’occasione che ha consentito alle amministrazioni ministeriali l’individuazione di un nuovo vettore legislativo – ormai quasi periodicamente rinnovato al pari di altre leggi a cadenza annuale – in cui poter inserire quelle disposizioni, anche a livello “micro”, che rispondono alle più svariate esigenze di manutenzione e di modifica dei relativi assetti normativi di riferimento.
E se a ciò aggiungiamo la tecnica legislativa impiegata in cui si fa largo uso del rinvio ad articoli e commi di altri atti legislativi, senza chiarirne il contenuto, ne risulta evidente la diffusa incomprensibilità della gran parte del dettato prescrittivo, fatti salvi i pochi “chierici” (come diceva il compianto Paolo De Ianna) che, negli uffici governativi e parlamentari, ne hanno in concreto proposto e condiviso il contenuto. Se si considera, infine, che l’apposizione della questione di fiducia, sia alla Camera che al Senato, ha comportato l’accorpamento delle disposizioni del decreto-legge (inizialmente distribuite in 45 articoli con un totale di 248 commi) in un articolo unico, la comprensione delle norme risulterà ancor più impervia per il comune cittadino. Con un esito davvero contraddittorio rispetto all’obiettivo della chiarezza e della semplificazione normativa, obiettivo che è universalmente considerato come imprescindibile per assicurare il corretto rapporto tra cittadini e istituzioni.
Il secondo aspetto di sistema riguarda l’impatto di questa normativa – soltanto formalmente emergenziale, in quanto disposta con decreto-legge – sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni. Queste ultime, al pari degli altri livelli territoriali di governo, hanno criticato a più riprese l’impiego del decreto-legge per definire, in modo innovativo e stabilizzato, la disciplina regolatoria su ambiti e materie ove sono presenti competenze riservate dalla Costituzione alle Regioni o comunque già assegnate dalla legge agli enti locali. Soprattutto, per quanto riguarda in specie il versante regionale, la questione assume rilevanza cruciale allorquando la disciplina introdotta con decreto-legge altera la ripartizione costituzionale delle competenze senza rispettare il principio di leale collaborazione. Quel principio cioè che impone – secondo quanto più volte ribadito dalla Corte costituzionale – la presenza di appositi meccanismi di garanzia a presidio delle competenze che la Costituzione attribuisce alle Regioni.
È ovvio che, così facendo, un decreto-legge può produrre effetti assai incidenti sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni qualora non sia opportunamente corretto in sede di conversione in legge. In questa occasione, proprio su impulso delle stesse Regioni, alcune disposizioni originarie del decreto-legge sono state modificate nel corso dell’esame parlamentare (si pensi, ad esempio, all’introduzione della clausola di salvaguardia per le Regioni ad autonomia speciale e per le Province autonome), ma altre disposizioni fortemente sospettate di incostituzionalità sono rimaste ferme, con l’evidente rischio che si produca un immediato contenzioso innanzi alla Corte costituzionale. Come poter consentire, allora, una qualche interlocuzione preventiva con le Regioni quando il Governo intende agire con decreto-legge sulle materie che la Costituzione assegna alle competenze regionali? Gli strumenti attualmente presenti appaiono insufficienti, e, dunque, è una questione su cui ormai occorre riflettere con decisione, anche ipotizzando proposte originali.
Da ultimo, anche con questo ultimo decreto-legge definitivamente convertito in legge è sempre più evidente in quale misura l’introduzione del PNRR abbia determinato, in numerosissimi ambiti delle politiche pubbliche nazionali, una sorta di divaricazione regolatoria tra l’ordinamento repubblicano pre-PNRR e l’ordinamento repubblicano post-PNRR, anche con riferimento all’articolazione delle competenze tra istituzioni centrali e istituzioni del decentramento territoriale. In altri termini, non soltanto il PNRR, di per sé stesso, ha previsto e dunque ha imposto un esteso elenco di interventi di riforma in molteplici campi dove si svolgono le attività individuali e collettive. A ciò va aggiunto, proprio in base ai molteplici interventi legislativi rivolti a garantire l’effettiva attuazione del PNRR e cioè la concreta realizzazione degli obiettivi posti come “condizionalità”, anche un effetto di innovazione profonda e presumibilmente permanente sulle forme, sulle modalità e sulle procedure organizzative e funzionali del governo della cosa pubblica, sia a livello statale che a livello territoriale, e dunque nelle reciproca interrelazione. Se così è, dopo il 2026 non si potrà semplicemente “voltare pagina” e “tornare al passato”, ma occorrerà tenere conto di questi rilevanti effetti di innovazione dell’assetto ordinamentale del nostro Stato regionale, nella misura in cui si tratterà di effetti non destinati a concludersi e dunque ad esaurirsi con la scadenza del PNRR, ma ormai destinati ad incidere in profondità sugli assetti e sui rapporti di potere, sia pubblici che privati.