Se vogliamo trovare un esempio del malfunzionamento dei rapporti istituzionali tra Stato e Regioni, un caso emblematico è rappresentato da quanto è avvenuto con il decreto-legge 7 giugno 2024, n. 73, recante “misure urgenti per la riduzione dei tempi delle liste di attesa delle prestazioni sanitarie”.
Certo, per quanto ormai il ricorso al decreto legge abbia abbondantemente superato i confini posti dalla Costituzione, non ci si è potuti meravigliare di un siffatto intervento statale di carattere emergenziale. Infatti, è nota a tutti l’estrema gravità della questione relativa alle difficoltà – sempre più largamente diffuse sull’intero territorio – di ottenere in tempi ragionevoli alcune prestazioni che dovrebbero essere offerte dal Servizio Sanitario Nazionale.
Ma l’intervento statale ha provocato una forte contestazione da parte delle Regioni, in particolare con riferimento a quella parte del decreto-legge (l’art. 2) in cui si intendeva istituire un nuovo organismo statale – l’ “Organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria” – con il compito di “vigilare e svolgere verifiche presso le aziende sanitarie locali e ospedaliere e presso gli erogatori privati accreditati sul rispetto dei criteri di efficienza e di appropriatezza nella erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie e sul corretto funzionamento del sistema di gestione delle liste di attesa e dei piani operativi per il recupero delle liste medesime”. Dotato anche di penetranti poteri di accesso e ispettivi e pure avvalendosi dell’Arma dei Carabinieri, questo nuovo Organismo avrebbe concluso le sue attività con accertamenti e verifiche che il Ministero della salute avrebbe potuto valutare “ai fini dell’applicazione delle misure sanzionatorie e premiali nei confronti dei responsabili a livello regionale o aziendale, inclusa la revoca o il rinnovo dell’incarico”.
Di tutta evidenza, allora, l’obiezione delle Regioni: questa innovazione avrebbe modificato radicalmente la catena di comando del SSN, secondo cui lo Stato controlla le Regioni e le Regioni, a loro volta, controllano le ASL. Insomma, non si trattava di una modifica di mero dettaglio, ma di un meccanismo che produceva un cambiamento davvero strutturale. Nulla, certo, impedisce allo Stato di modificare un principio fondamentale nella disciplina legislativa del SSN, ma è chiaro che l’alterazione di un principio così importante avrebbe provocato effetti a cascata sull’intero sistema di governo della sanità pubblica: a chi avrebbero risposto del loro operato, in definitiva, i dirigenti sanitari, allo Stato o alle Regioni?
Le Regioni, quindi, hanno chiesto al Governo di modificare, unitamente ad altri aspetti, l’art. 2 del citato decreto legge. Ciò è avvenuto in fretta e furia nel corso del procedimento parlamentare di conversione in legge, con il risultato che il testo poi conclusivamente approvato prevede che i controlli effettuati dal predetto “Organismo” statale saranno comunicati ad una nuova autorità nominata dalla Regione, il “Responsabile unico regionale dell’assistenza sanitaria” – il cd. RUAS -, che poi provvederà a “valutare i conseguenti interventi”. Qualora le Regioni non nomineranno il RUAS o nel caso di “ripetute inadempienze rispetto agli obiettivi” di riduzione delle liste di attesa, l’Organismo statale potrà esercitare i poteri sostitutivi in relazione ai compiti affidati alle Regioni e al RUAS.
Possiamo essere soddisfatti di quanto avvenuto? Niente affatto. Sarebbe stato meglio se lo Stato, prima di giungere alla decisione di adottare un decreto-legge immediatamente efficace su una tematica così scottante, avesse attivato il meccanismo della leale collaborazione con le Regioni, utilizzando i molteplici tavoli di confronto che già sussistono sia a livello politico che tecnico-politico. E ciò in coerenza con quel principio costituzionale che vuole, se non proprio la previa intesa, almeno l’ascolto dell’altro versante istituzionale prima di adottare un provvedimento incidente sulla ripartizione delle rispettive competenze tra Stato e Regioni. Non si sarebbe dato luogo all’esacerbazione del conflitto, si sarebbe evitata la strumentalizzazione di una polemica politica in cui ha poi prevalso la logica della difesa “corporativa” delle reciproche competenze, si sarebbe potuto discutere con calma e pacatezza, e molto probabilmente si sarebbe raggiunta una soluzione meno intricata di quella poi definitivamente approvata dalle Camere per di più con pochissimo tempo a disposizione. Un’esperienza su cui meditare per evitare di ripetere i medesimi errori.