ISTITUTO DI STUDI SUI SISTEMI REGIONALI FEDERALI E SULLE AUTONOMIE
  
”Massimo Severo Giannini”

Editoriale Prof. Giulio Salerno – Newsletter CNR ISSIRFA ottobre 2023

Dopo l’accordo di coesione raggiunto con la Regione Liguria il 22 settembre, lo scorso 28 ottobre è stato sottoscritto dal Governo, e più precisamente dal Ministro Fitto, anche l’accordo di coesione con la Regione Marche. Si è subito messo in moto, dunque, quanto previsto dal d.l. n. 124/2023, il cd. “decreto per il sud” (si veda, in particolare, l’art. 1, comma 178, lettera d), l. n.178/2020, così come modificato dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 124/2023), che ha reimpostato il processo nazionale di attuazione della politica di sviluppo regionale finanziata dall’Unione europea mediante una pluralità di fondi che sono rivolti al perseguimento di obiettivi di coesione economica, sociale e territoriale in modo da ridurre le disparità tra i livelli di sviluppo presenti all’interno degli Stati membri e con una particolare attenzione per le regioni che presentano gravi svantaggi.
Si tratta di un corposo ammontare di risorse finanziarie che, come noto, sono aggiuntive e non sostitutive rispetto a quelle nazionali – come, in particolare, il Fondo per lo sviluppo e la coesione -, e dunque sulla base del principio di addizionalità. Tra l’altro, va ricordato che, sulla base dell’Accordo di partenariato tra l’Unione europea e l’Italia, nel ciclo di programmazione europea 2021-2027 sono attribuiti all’Italia poco meno di 43 miliardi di euro per promuovere le politiche di coesione, e di questa assegnazione più di 30 miliardi sono dedicati alle regioni meridionali. Inoltre, l’80 per cento delle risorse del Fondo sviluppo e coesione – rifinanziato per più di 73 miliardi di euro per il predetto ciclo 2021-2027 – sono destinate alle aree del mezzogiorno. A tali risorse, non va dimenticato, vanno poi aggiunte quelle previste dal PNRR. Dunque, abbiamo la disponibilità di un pacchetto consistente di risorse che, però, “viaggiano” su binari separati verso una molteplicità di destinazioni che spesso sono funzionalmente e territorialmente sovrapposte, ma che vanno evidentemente ricondotti a sistema per consentirne l’impiego razionale ed efficiente nell’interesse primario delle stesse collettività.
Proprio con questa finalità di riorganizzazione sistematica della governance che presiede all’impiego delle predette risorse, il d.l. n. 124/2023 si caratterizza per una metodologia innovativa rispetto a quanto avveniva in precedenza, e che, come noto, ha dato risultati piuttosto deludenti in termini di uso ottimale delle risorse disponibili. A tal proposito sono significativi gli ultimi dati, sugli impegni e sulle spese al 30 giugno 2023, che sono riportati nel bollettino del MEF che sintetizza il monitoraggio sugli aspetti finanziari delle politiche di coesione.
Con l’introduzione degli Accordi di coesione, innanzitutto, le singole Regioni e lo Stato sono chiamati a co-determinare gli obiettivi e gli indirizzi degli interventi aventi finalità di sviluppo e coesione in modo da garantirne la coerenza con la programmazione nazionale (con riferimento sia alle politiche di settore che alle politiche di investimento previste nel PNRR) e con quella europea. Inoltre, mediante tali Accordi vanno dettagliatamente definiti, sempre in modo condiviso tra le Regioni e lo Stato, numerosi aspetti dei meccanismi di impiego delle risorse disponibili, ovvero le linee d’azione e gli interventi finanziabili (anche con il concorso di più fonti di finanziamento), il relativo piano finanziario articolato per annualità, il cronoprogramma di realizzazione (con obiettivi intermedi e finali), le reciproche responsabilità, e i principi per la gestione, il controllo e il monitoraggio sull’efficacia e sull’efficienza delle azioni e degli interventi che si intendono intraprendere.
Si è parlato di un ritorno al dirigismo o al centralismo statalistico, e pertanto si è paventata l’introduzione di restrizioni apposte alla libera determinazione delle autonomie territoriali. A ben vedere, invece, e al di là di singoli e specifici aspetti che potranno essere oggetto di correzione e di perfezionamento, si è tracciata una strada ispirata al principio di leale collaborazione, quel principio che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, nello stesso tempo richiede e consente la compresenza della pari volontà dei diversi livelli istituzionali contemporaneamente coinvolti – in questo caso Stato e Regioni – qualora siano in giuoco competenze reciprocamente interferenti. Proprio questo è il caso dello svolgimento nazionale delle politiche per lo sviluppo regionale con obiettivi di coesione, politiche che si connotano per lo stretto intreccio tra le competenze di carattere unitario spettanti allo Stato, e per di più connesse anche agli impegni assunti in sede europea, e quelle riservate alle autonomie regionali.
Con gli accordi di coesione Stato e Regioni non rimangono reciprocamente isolati e contrapposti nello svolgimento delle rispettive funzioni, ma sono indotti a confrontarsi in senso proattivo e positivo sia sui profili di carattere programmatorio che su quelli più strettamente operazionali. In altri termini, da un lato si supera la separazione tra la funzione della programmazione “alta” spettante agli organi dello Stato (e talora collegata anche al decisivo ascolto delle parti sociali più rilevanti sul piano nazionale), e le successive fasi della declinazione e specificazione degli obiettivi e dell’attuazione gestionale da svolgersi in sede regionale. Una separazione che, nei fatti, ha prodotto deresponsabilizzazione e inefficienza. Dall’altro lato, sulla base degli atti nazionali di programmazione, il momento concretamente definitorio degli “obiettivi di sviluppo” viene integralmente condiviso da entrambi i soggetti istituzionali ed è arricchito di senso e di contenuto in quanto è specificato tenendo conto delle molteplici e differenziate esigenze che scaturiscono dall’impiego di risorse finanziarie di plurima provenienza, e dalla corrispondente realizzazione di linee di azione e di interventi che, ricadendo sul medesimo territorio regionale, richiedono sempre più un approccio necessariamente sistematico.
Probabilmente, anche le tante vischiosità e insufficienze che sono apparse evidenti nel metodo utilizzato per il PNRR – e caratterizzato dalla netta sottovalutazione del ruolo programmatorio delle autonomie regionali, e dalla distinzione rigidamente meccanicistica tra i compiti spettanti ai diversi livelli istituzionali (e soprattutto tra i soggetti “titolari” e i soggetti “attuatori” delle misure di investimento) – sono state di insegnamento. Questa significativa correzione di rotta, del resto, è tanto più impellente in quanto il Paese tutto deve rispondere in modo responsabile agli impegni assunti in sede europea. Proprio in queste occasioni, allora, gli apparati pubblici che operano nei diversi livelli di governo non possono non essere chiamati a cooperare fattivamente per il bene comune in un vero spirito di leale collaborazione nazionale.
In definitiva, chiudersi ciascuno nel proprio recinto a protezione dei rispettivi interessi politici, significherebbe restare fermi ad un’impostazione difensivistica che ormai non è più né replicabile, né giustificata. Certo, è una sfida complessa che richiede un mutamento di mentalità, ma soprattutto una riscoperta: la riattivazione di quelle potenzialità di innovazione concertata dei processi decisionali che è ragione prima della nostra Repubblica improntata al decentramento.