Molte e interessanti sono le considerazioni presenti nell’ultimo “Rapporto 2022-2023” sulla “Legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea”, che è stato presentato a Palermo lo scorso 14 giugno nel corso di un apposito evento organizzato dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome.
Come noto, il Rapporto è il frutto di un denso lavoro che è annualmente svolto dall’ “Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati”, a cui collaborano il CNR ISSIRFA in relazione alla parte concernente la produzione normativa delle Regioni, l’ “Osservatorio sulle fonti” dell’Università di Firenze circa la giurisprudenza costituzionale, e l’Ufficio legislazione straniera del Servizio Biblioteca della Camera dei deputati circa la legislazione in Europa. Questo Rapporto rappresenta ormai da anni il punto di riferimento per conoscere le tendenze e le problematiche della legislazione in Italia e nell’Unione europea, così come in alcuni dei principali Stati europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna).
Per quanto concerne la produzione normativa delle Regioni, il Rapporto 2022-2023 conferma alcune linee di tendenza già da tempo presenti, e nello stesso tempo segnala variazioni e aspetti innovativi su cui deve concentrarsi l’attenzione non solo degli esperti e degli studiosi del settore, ma anche gli stessi decisori politici.
Soprattutto, risulta confermata la sostanziale stasi della produzione legislativa regionale, che, a partire dall’ottava legislatura regionale (2005-2010), si è ormai stabilizzata dal punto di vista quantitativo (tenuto conto sia del numero delle leggi, sia del numero degli articoli e dei commi). Il dato, per di più, risulta coerente anche nel confronto tra Regioni ordinarie e specialità, seppure ovviamente differenziato all’interno delle due tipologie di autonomia. Insomma, dopo una prima fiammata subito dopo la revisione costituzionale del 2001, vi è stato un sostanziale ripiegamento della legge regionale. Ripiegamento che ha comportato la riduzione del ruolo delle Regioni nella definizione delle politiche pubbliche, e il conseguente spostamento sul versante della gestione amministrativa nel complesso e articolato concorso con il livello statale, da un lato, e quello subregionale dall’altro.
Molte le ragioni di questo fenomeno. In particolare, come noto, vi sono state le difficoltà nell’applicazione della riforma del 2001 e la tendenza al continuismo nell’interpretazione e nell’applicazione del nuovo riparto delle competenze. Sicché all’emersione di “vecchi e nuovi confini” alla legislazione regionale è corrisposta l’incisiva azione del contenzioso costituzionale (e del pre-contenzioso di cui non vanno sottovalutati gli esiti in senso riduttivo sull’esercizio delle competenze regionali).
Tutto questo impone sempre più un vero e proprio ripensamento della disciplina che è scaturita dal nuovo Titolo V, così come concretamente attuato.
Insomma, è evidente la distanza tra il testo costituzionale e la realtà effettuale in cui si muovono le Regioni. È altrettanto evidente la mancata realizzazione di molte delle promesse che erano alla base della riforma del 2001, con conseguenti delusioni e inevitabili tentativi di fughe in avanti. Certo, l’insuccesso dei due tentativi di riforma costituzionale che si sono succeduti dopo il 2001 non facilita la rinnovata prospettazione di soluzioni di sistema. Ma ciò non deve condurre ad un atteggiamento rinunciatario e, addirittura, a non reagire a chi propone strade ancor più restrittive delle autonomie regionali in nome di un ancor più pronunciato centralismo. Le autonomie territoriali, non deve dimenticarsi, sono essenziali presidi di garanzia per una democrazia equilibrata, tanto più in un contesto in cui il perno delle decisioni pubbliche si allontana sempre più dal controllo effettivo da parte dei cittadini che dovrebbero essere titolari della “sovranità”.
Nel concreto svolgimento del processo legislativo regionale, risulta poi ancora confermato il ruolo centrale delle Giunte regionali, come motore cruciale del processo legislativo regionale, seppure si possa riscontrare un leggero incremento delle iniziative consiliari o miste, mentre rimangono ancora senza effetto sia l’iniziativa legislativa popolare che quella degli enti locali. Insomma, occorre riflettere sul concreto svolgimento della forma di governo regionale, in cui non possono trascurarsi gli obiettivi di rafforzare l’iniziativa consiliare e soprattutto di ricucire i rapporti con i territori e con la cittadinanza tutta, evitando che l’esercizio del potere si svolga con modalità tendenzialmente isolate e autoreferenziali.
Se poi è confermata l’ormai tradizionale rapidità dell’iter legislativo regionale, con soltanto un lieve aumento dei tempi di approvazione; appare sempre più evidente la necessità di conciliare la rapidità del procedimento legislativo con l’efficacia e la qualità della legislazione, su cui i recenti appunti della Corte costituzionale (vedi la sent. 110/2023) suonano come un delicato campanello d’allarme. Da questo punto di vista, deve essere apprezzata la costante attenzione delle Regioni agli interventi di “manutenzione” sulla previgente legislazione, anche con rilevanti interventi aventi finalità di disboscamento normativo mediante abrogazioni espresse o mediante la significativa presenza delle leggi settoriali di riordino. Si tratta di esempi che anche il legislatore statale dovrebbe seguire.
Inoltre, appare stabile l’ordine tra i vari macrosettori di intervento, seppure con qualche variazione, ed è senz’altro apprezzabile l’attivazione del legislatore regionale su alcuni fronti più innovativi (dall’edilizia sostenibile alle piattaforme con le tecnologie digitali). Tuttavia, la costante prevalenza dell’esercizio delle competenze concorrenti rispetto ad un assai modesto – e peraltro non omogeneo – incremento delle leggi nelle materie di competenza residuale, dimostra che è ancora possibile uno sforzo nel trovare in queste ultime una risorsa importante per ampliare i campi di azione delle politiche pubbliche delle Regioni, che così potrebbe fare da apripista per il decisore statale.
In definitiva, al di là delle questioni di fondo sul ripensamento del Titolo V, così come le prospettive sul potenziamento delle competenze legislative derivante dalla possibile attuazione dell’autonomia differenziata, il prossimo futuro della legislazione regionale appare condizionato da come si affronteranno almeno tre questioni: il miglioramento della qualità della legge, la democraticità del cantiere di produzione, e l’attenzione verso le nuove frontiere del diritto.